Dina Kaminskaja (Ekaterinoslav, 1919 – Falls Church, Virginia, 2006)

Ekaterinoslav, 1919-Virginia, 2006

Dina Isaakovna Kaminskaja è stata uno tra gli avvocati sovietici più influenti e attivi nella difesa dei diritti umani in URSS e membro del Gruppo Helsinki di Mosca (Moskovskaja Chel’sinskaja Gruppa). Nacque nel 1919 a Ekaterinoslav (odierna Dnipro, in Ucraina) da una famiglia ebrea benestante. Nel 1937 prese a frequentare l’Istituto di legge di Mosca (Moskovskij juridičeskij institut) e, laureatasi nel 1941, divenne membro del Collegio degli avvocati della stessa città (Moskovskaja gorodskaja kollegija advokatov), esercitando l’avvocatura per 37 anni. A proposito della sua scelta di intraprendere la carriera giuridica, nelle sue memorie scrisse: “Sono grata del fatto che, giovane come ero allora, una buona dose di sesto senso – una certa combinazione di educazione ed intuito – mi abbia aiutato a scegliere la professione che risponde a un bisogno fondamentale della mia natura, il lavoro che mi ha permesso di difendere così tante persone dal potere arbitrario e spesso crudele dello stato sovietico” (Kaminskaja 1982: 13). Per Kaminskaja l’esercizio della sua professione rispondeva quindi ad un imperativo morale che nella difesa dei diritti umani trovava la sua naturale realizzazione: “I dissidenti sovietici che ho difeso non erano terroristi o estremisti. Erano persone che lottavano nei limiti della legge per indurre lo stato a rispettare i legittimi diritti umani. Credo che stessero combattendo, apertamente e con senso di dovere, per qualcosa contro cui noi avvocati dovremmo combattere nella natura stessa della nostra professione. Difendendoli, sentivo che anche io in qualche modo stavo partecipando a quella lotta” (Kaminskaja 1982: 49).
Per questo nel corso della sua carriera ha difeso numerosi dissidenti che si battevano per il rispetto dei diritti umani in URSS, tra cui V. Bukovskij, Ju. Galanskov, A. Marčenko, L. Bogoraz, P. Litvinov e i membri del movimento nazionale tataro in Crimea M. Džmilev e I. Gabaj (MChG). Il suo lavoro per la difesa dei diritti dei prigionieri politici, assieme a quello dell’avvocata Sof’ja Kallistratova, è stato fondamentale per far conoscere al mondo l’illegalità in cui, anche in epoca post-staliniana, si svolgevano i processi politici in URSS ai danni dei dissidenti.
Il suo impegno per la difesa di coloro che la pensavano diversamente (inakomysliaščie) fu variamente ostacolato dalle autorità sovietiche che cercarono con ogni mezzo di impedirle di svolgere la sua professione. Quando, ad esempio, nel 1965 Andrej Sinjavskij e Julij Daniėl’ furono arrestati con l’accusa di propaganda antisovietica per aver dato alle stampe le proprie opere all’estero, Dina Kaminskaja avrebbe dovuto difendere quest’ultimo, tuttavia, non appena fu noto che intendeva chiedere la piena assoluzione dell’imputato, il collegio degli avvocati respinse la sua richiesta di assumerne la difesa e al suo cliente fu assegnato un avvocato d’ufficio (cf. Kaminskaja 1982: 172). E lo stesso accadde anni dopo per la difesa di dissidenti quali S. Kovalëv e A. Šaranskij (cf. Radio Svoboda).
Il primo processo politico al quale le fu concesso di partecipare in qualità di avvocata difensora fu quello di Vladimir Bukovskij che si tenne dal 30 agosto al 1° settembre 1967. Quest’ultimo era stato arrestato per aver organizzato il miting del 22 gennaio 1967 e in quell’occasione la linea difensiva adottata da Dina Kaminskaja fu quella di dichiarare illegittima l’accusa poiché, nel pieno rispetto della Costituzione sovietica che sanciva il diritto di manifestare, Bukovskij non aveva commesso nessun reato e, pertanto, chiese l’assoluzione con formula piena del suo cliente perché il fatto non sussisteva (cf. Radio Svoboda). Lo stesso Bukovskij nella sua arringa difensiva, che in seguito venne diffuso in numerose copie samizdat divenendo ben presto un vero e proprio manifesto della dissidenza, rivendicò il proprio diritto a manifestare e organizzare liberamente delle proteste come previsto dall’articolo 125 della Costituzione sovietica, denunciando pure le forzature al Codice Penale messe in atto dall’accusa nel procedimento a suo carico (cf. Boobbyer 2009: 456-57). La stessa Dina Kaminskaja, ricordando la linea difensiva che aveva assunto al processo di Bukovskij, ebbe a scrivere: “Ammisi tutte [le accuse]: che aveva organizzato la dimostrazione, che ne aveva preso parte, che aveva scritto gli slogan sui cartelloni e che dopo, in piazza, silenziosamente ne aveva alzato uno sopra la sua testa. La sola cosa che non ammisi era che ciò costituisse un crimine. La libertà di manifestare era garantita dalla Costituzione sovietica e non c’erano leggi, istruzioni o direttive che vietassero la partecipazione alle dimostrazioni organizzate privatamente oppure ne regolassero lo svolgimento” (Kaminskaja 1982: 176).
Il dibattimento e la posizione della difesa al processo di Bukovskij segnarono un momento importante per la difesa dei diritti umani in URSS, poiché ribadivano la linea assunta dagli attivisti (pravozaščitniki) nel rivendicare la legalità delle proprie azioni, agite nel pieno rispetto della Costituzione sovietica. Tuttavia, nonostante l’impegno profuso da Kaminskaja nel difendere il suo assistito e la risonanza mondiale che ebbe il processo, Bukovskij fu condannato a tre anni di reclusione in un campo di lavoro correttivo (cf. Boobbyer 2009: 457).
Nel gennaio 1968 si tenne il cosiddetto “processo dei quattro” (process četyrёch), che vedeva alla sbarra degli imputati Ju. Galanskov, A. Ginzburg, A. Dobrovol’skij e V. Laškova, accusati di aver svolto “agitazione e propaganda antisovietica” con l’aggravante di avere avuto contatti con l’organizzazione anticomunista NTS (Narodnoe-Trudovoj sojuz rossijskich solidaristov, Unione nazionale del lavoro dei solidaristi russi). In quell’occasione Kaminskaja assunse la difesa di Jurij Galanskov, che era stato arrestato per la redazione del secondo volume dell’almanacco Feniks (1966). In questo caso, con lo scopo di ottenere una pena più lieve, l’avvocata respinse diverse accuse – tra cui quella secondo cui il suo assistito avesse avuto dei contatti con l’NTS e avesse partecipato alla stesura del Libro bianco sul caso Sinjavskij-Daniėl’– e chiese di cambiare il capo d’imputazione da attività antisovietica (art. 70) a diffamazione dello stato sovietico (art. 190) (cf. Litvinov 1971: 510). Tuttavia, sebbene lo stesso Galanskov si dichiarò innocente e denunciò l’iniquità del processo (cf. ibid.: 238-240), la strategia difensiva di Kaminskaja non sortì l’effetto sperato, ed egli fu condannato a sette anni di lager. Inoltre, la stessa Kaminskaja, assieme all’avvocato Semjon Arija – difensore di Laškova – fu richiamata dal Collegio degli avvocati di Mosca per la sua condotta durante il processo, mentre Boris Zolotuchin, che aveva chiesto la piena assoluzione di Ginzburg, fu espulso dal PCUS e rimosso dalla sua posizione a capo del Collegio (cf. Kaminskaja 1982: 319).
Il 25 agosto 1968 otto manifestanti (L. Bogoraz, P. Litvinov, V. Delone, N. Gorbanevskaja, V. Dremljuga, V. Fajnberg, K. Babickij e T. Baeva) si riunirono nella Piazza Rossa per protestare contro l’intervento militare sovietico in Cecoslovacchia. La manifestazione era pacifica e i manifestanti non reagirono alla violenza della polizia. Ciononostante, i partecipanti furono tutti arrestati tranne Fajnberg, che fu internato in ospedale psichiatrico, e Gorbanevskaja, dichiarata incapace di intendere e di volere e affidata alle cure della madre (cf. Alekseeva 2016: 29). In quell’occasione Kaminskaja assunse la difesa di Larisa Bogoraz e Pavel Litvinov. L’accusa era costruita su false testimonianze di passanti e poliziotti che accusavano il gruppo di aver avuto un atteggiamento molesto e di aver impedito lo scorrimento del traffico, anche se la Piazza Rossa è zona pedonale (cf. Kaminskaja 1982: 220-223). A proposito di questo processo, nelle sue memorie Dina Kaminskaja ricordava l’eccezionalità di quel processo che vide gli imputati uniti in un fronte unico per difendere le proprie posizioni: “Il caso della dimostrazione nella Piazza Rossa fu il mio terzo processo politico. Nei primi due il KGB era riuscito a mettere alcuni degli accusati contro gli altri. Nel caso della Piazza Rossa, nonostante i diversi gradi di maturità e di educazione dei partecipanti, non potrei dire che ci fosse qualcuno che superasse gli altri in coraggio, costanza o integrità. Tra gli imputati non c’erano leader e nessuno era guidato [dagli altri]. Nessuno tra loro ha ceduto al dubbio o al pentimento; ognuno era pronto a condividere la stessa sorte degli altri. Questo ha reso il processo dei manifestanti della Piazza Rossa davvero speciale nella storia delle persecuzioni politiche sovietiche” (Kaminskaja 1982: 238).
In quell’occasione, tutti gli imputati furono dichiarati colpevoli ai sensi dell’articolo 190 (commi 1 e 3) del Codice Penale sovietico.
L’attività difensiva svolta a favore dei pravozaščitniki non fu senza conseguenze per Dina Kaminskaja: le autorità preposte ritennero la sua condotta politicamente dannosa per lo stato sovietico e nel 1970 le fu impedito di continuare a svolgere liberamente la sua professione.  All’indomani della sua difesa al processo dei membri del movimento nazionale dei tatari di Crimea (krymskotatarskoe nacional’noe dviženie) Il’ja Gabaj e Mustafa Džemilev – che si tenne a Taškent nel 1970 e si concluse con la condanna degli imputati a tre anni di lavori forzati per aver prodotto e diffuso materiale dal contenuto “calunnioso” nei confronti dell’URSS (art. 190), ovvero dei testi in cui si denunciavano le ingiustizie perpetrate ai danni della popolazione tatara di Crimea (cf. Radio Svoboda) ­– Kaminskaja fu oggetto di un provvedimento disciplinare che ostacolò la sua carriera giuridica (cf. Kaminskaja 1982: 340). In quell’occasione la corte ritenne inappropriata la sua arringa difensiva definendo l’avvocata “non all’altezza di quei compiti che sono assegnati all’avvocatura sovietica dagli organi sovietici e di partito” (ibid.) e, appellandosi direttamente al Ministro della giustizia, chiese che venissero adottate le misure necessarie (ibid.). Fu così che Kaminskaja fu privata del permesso speciale necessario agli avvocati sovietici per poter prendere parte ai processi politici e, di conseguenza, le fu di fatto impedito di assumere le difese dei dissidenti in tribunale, come avvenne ad esempio nel caso del secondo processo a Bukovskij (1972).  Tuttavia, ciò non mise fine alla sua attività in difesa dei diritti umani in URSS: ella continuò a offrire consulenze legali ai dissidenti e contribuì significativamente alla diffusione delle notizie sulle violazioni perpetrate in Unione Sovietica grazie anche ai contatti intrattenuti con i corrispondenti della stampa estera (cf. Radio Svoboda). La presa di posizione assunta da Kaminskaja compromise irrimediabilmente la sua situazione personale al punto che, nel 1973, il figlio Dmitrij e la moglie decisero di emigrare negli Stati Uniti, mentre l’avvocata e il marito rimasero ostinatamente in URSS. A partire dal 1976, però, le attenzioni del KGB nei loro confronti si intensificano fino a sfociare in una serie di perquisizioni ed interrogatori. Nel 1977 Simis venne licenziato, Kaminskaja venne espulsa dal Collegio degli avvocati e, come se non bastasse, furono pure sfrattati. In tal modo vennero di fatto costretti all’esilio e, in quello stesso anno funesto, emigrarono negli Stati Uniti, dove continuarono la loro lotta per i diritti umani: oltre alla rubrica Zakon i obščestvo (Legge e società) attiva dal 1978 al 2005 su Radio Svoboda, Kaminskaja collaborò pure con l’emittente radiofonica Golos Ameriki e nel 1982 pubblicò il libro Final Judgment: My Life as a Soviet Defense Attorney – edito in russo col titolo Zapiski advocata (Memorie di un avvocato) nel 1984 – mentre Konstantin Simis diede alle stampe negli Stati Uniti l’opera USSR: The Corrupt Society (1982). Entrambi hanno lottato fino alla fine contro l’illegalità del sistema giudiziario sovietico, sostenendo instancabilmente la lotta per i diritti umani e gli attivisti sovietici che si battevano in patria e all’estero per la difesa dei diritti inalienabili dell’uomo.

Giulia Bartali
[30 giugno 2021]

Lavoro tratto dal seminario “Movimento dei diritti civili in URSS” tenuto da Ilaria Sicari (Corso di Letteratura Russa, CdS magistrale in Lingue e Letterature Europee e Americane, Università degli Studi di Firenze, a.a. 2019/2020).

Bibliografia

Cita come:
Giulia Bartali, Dina Kaminskaja, in Voci libere in URSS. Letteratura, pensiero, arti indipendenti in Unione Sovietica e gli echi in Occidente (1953-1991), a cura di C. Pieralli, M. Sabbatini, Firenze University Press, Firenze 2021-, <vocilibereurss.fupress.net>.
eISBN 978-88-5518-463-2
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