Vladimir Dremljuga con il figlio. Fonte: www.colta.ru.

Saratov, 1940–Jersey City, 2015

25 agosto 1968. Allo scoccare del mezzogiorno otto persone si riunirono sulla Piazza Rossa, presso il Lobnoe mesto per protestare contro l’invasione sovietica della Cecoslovacchia. Fra loro, sventolando uno striscione con gli slogan “Libertà per Dubček!” (Svobodu Dubčeku!) e “Abbasso gli invasori” (Doloj okkupantov), c’era l’operaio ventottenne Vladimir Dremljuga.
Vladimir Aleksandrovič Dremljuga nacque nel 1940 a Saratov da una famiglia di umili origini. Gli anni della sua formazione giovanile furono caratterizzati da una certa turbolenza, che sarebbe poi divenuta una costante nella sua vita adulta.
In seguito all’espulsione dal Komsomol, persa ogni speranza di essere ammesso all’Istituto statale di Mosca di Relazioni Internazionali (Moskovskij Gosudarstvennyj Institut Meždunarodnych Otnošenij), Dremljuga si iscrisse alla facoltà di storia dell’Università statale di Leningrado (Leningradskij Gosudarstvennyj Universitet). La sua esperienza accademica fu tuttavia di breve durata poiché, avendo avviato nel 1964 una raccolta firme per una lettera di critica nei confronti di N. Chruščëv, egli fu immediatamente espulso dall’università (cf. “Ėto prjamo zdes’” 1). La versione dei fatti fornita dallo stesso Dremljuga nel corso del processo a suo carico attribuiva invece l’espulsione ad uno scherzo che egli giocò al suo compagno di stanza, ufficiale del KGB, facendosi recapitare dai propri amici una lettera recante la provocatoria intestazione “al Capitano del KGB Vladimir Dremljuga” (cf. Gorbanevskaja 2007: 122). Fin dalla giovane età, l’attitudine alla ribellione e alla provocazione fu un tratto distintivo del carattere di Dremljuga, il quale, come sostiene lo storico Aleksej Makarov, considerava la protesta un atto naturale (cf. Makarov 2015). Venuto a conoscenza del processo Siniavskij-Daniel’ (1966), Dremljuga lasciò Leningrado per trasferirsi a Mosca, dove prese parte attiva ai circoli del dissenso: la partecipazione alla “dimostrazione dei sette” (demonstracija semerych)[1] del 25 agosto 1968 per protestare contro l’occupazione sovietica della Cecoslovacchia rappresentò sicuramente il punto culminante del suo coinvolgimento.
Ribellandosi di fronte alle menzogne di un governo che si sentiva in diritto di calpestare la libertà altrui, Dremljuga veniva definito dai mezzi di comunicazione di massa occidentali come “uno di quei sette motivi per cui non possiamo odiare i russi” (Makarov 2015). Non potevano tuttavia pensarla allo stesso modo gli ufficiali di governo in URSS: imputato secondo l’articolo 190-3 del Codice Penale (“organizzazione di azioni di gruppo che disturbano l’ordine pubblico”), Dremljuga fu sottoposto a processo nell’ottobre 1968 (cf. Clementi 2007: 89).
Nel corso dell’interrogatorio Dremljuga si distinse per un atteggiamento ironico e dissacrante nei confronti dei rappresentanti della legge, muovendo una serie di acute critiche contro il sistema giudiziario sovietico. Al giudice disse che non era importante sapere se la manifestazione fosse stata concordata tra i partecipanti o meno, perché l’articolo 190 li avrebbe potuti condannare in entrambe i casi, quindi era una domanda ininfluente (cf. Gorbanevskaja 2007: 119). Nell’arringa difensiva che Dremljuga pronunciò in sua difesa egli cercò di spiegare il profondo significato delle proprie azioni, le quali furono descritte come un disperato tentativo di giustizia all’interno di uno stato ingiusto: “Per tutta la vita, da quando ne ho coscienza, avrei voluto essere un cittadino, vale a dire un uomo сhe esprime i propri pensieri pacificamente e con dignità. Per dieci minuti sono stato un cittadino. So bene che la mia voce risuonerà in dissonanza sullo sfondo del silenzio generale, noto come “sostegno nazionale alla politica del partito e al governo”. […] Se loro [gli altri manifestanti] non ci fossero stati, sarei andato in Piazza Rossa da solo. Se ci fossero stati altri metodi, li avrei usati” (ibid.: 212).
Una tale libertà di espressione, però, non poteva essere ammessa di fronte alle autorità e, non appena l’imputato si accorse che il giudice e il procuratore cercavano di interrompere e strumentalizzare il suo discorso, egli si rifiutò di concludere l’arringa difensiva in segno di protesta. Il procuratore chiese per Dremljuga tre anni di lager a regime duro. Ricevuta la conferma della sentenza, nel novembre 1968 fu inviato a scontare la propria condanna a Murmansk.
Le principali informazioni sugli anni che Dremljuga passò in reclusione provengono dalla “Chronika tekuščich sobytij” (Cronaca degli avvenimenti correnti)[2]. Da tale fonte si evince che il detenuto trascorse solo pochi mesi a Murmansk, per essere poi trasferito a Jakutsk. Qui ebbe per lui inizio un lungo periodo di maltrattamenti da parte dell’amministrazione del lager: privato delle lettere dei familiari e degli amici, egli veniva ulteriormente punito con l’isolamento. Neppure l’intervento dell’avvocato poté qualcosa: tutte le sue richieste di vedere il proprio protetto, infatti, furono rifiutate. All’inizio del luglio 1970, stanco di queste continue ingiustizie, Dremljuga iniziò uno sciopero della fame. Il 25 agosto 1971, alla scadenza dei tre anni di condanna, anziché essere rilasciato, Dremljuga fu trattenuto in carcere con un nuovo capo di accusa. Colpevole di aver pronunciato alcuni discorsi anti sovietici in merito all’assenza di libertà in URSS, egli fu condannato secondo l’articolo 190-1 (“diffusione di invenzioni deliberatamente false che diffamano lo stato sovietico e l’ordinamento sociale”). Nuovamente sottoposto a processo, Dremljuga fu chiamato a scontare altri tre anni di campo a regime duro. Nel 1974, alla scadenza del secondo termine di reclusione, a Dremljuga fu fatto intendere che, se non avesse mutato il proprio comportamento, avrebbe potuto ottenere addirittura una terza condanna. Percepita la propria impotenza di fronte al sistema giudiziario sovietico, l’imputato accettò l’obbligo di scrivere una lettera di pentimento in cui ritrattava la propria posizione, che fu pubblicata sulla rivista “Socialističeskaja Jakutija” con il titolo Načat’ žizn’ snačala (Ricominciare la vita da capo) e di cui qui di seguito si riporta l’incipit: “Ho 34 anni. A questa età è difficile ricominciare la vita da capo, ma è ancor più duro cambiare le proprie idee e le proprie abitudini, rinunciare a quelle opinioni ingannevoli che fino a poco tempo fa consideravo essere le mie convinzioni. Tuttavia, ho trovato la forza di riconoscere e di affermare con franchezza che ho profondamente e completamente preso coscienza dell’erroneità delle posizioni da me assunte in precedenza, dell’ingiustizia delle mie azioni, del danno che esse hanno rappresentato per il popolo sovietico, della loro incompatibilità con le sue idee e con la sua politica” (Dremljuga 1974). Grazie a questa pubblica ammenda, nel giugno del 1974, con un mese e mezzo di anticipo sulla scadenza del termine di reclusione, Dremljuga ottenne la libertà vigilata. Uscito dal lager, però, il dissidente non fece mai ritorno a Mosca: dopo aver raggiunto la madre a Melitopol’, egli emigrò negli Stati Uniti (cf. “Ėto prjamo zdes’” 2).
Giunto in America, Dremljuga sembrò voler davvero ricominciare una nuova vita. Reciso ogni contatto con i circoli dissidenti e rimasto alla larga dagli ambienti dell’emigrazione, egli fece perdere quasi ogni sua traccia. Nei quarant’anni trascorsi a Jersey City Dremljuga si dedicò principalmente al business, avviando un’impresa edile specializzata nella conservazione storica (cf. Makarov 2015).
Tale interruzione dell’attivismo, comunque, non deve essere letta come una ritrattazione dei propri ideali; al contrario, essa si presenta come una scelta sofferta, ma necessaria. In tempi recenti è stato ritrovato un articolo che Dremljuga scrisse in emigrazione nel 1975, che ben sintetizza la dolorosa parabola della sua vita: “Del fatto che una piccola parte di popolazione, anzi credo una grande parte, non accetti e schernisca l’idea della costruzione del paradiso sovietico, mi sono accertato più di una volta […] Il lettore occidentale, tuttavia, non può neanche lontanamente immaginare quel sistema di controllo onnicomprensivo a cui l’uomo è sottoposto in Russia sin dalla nascita. Ne risulta che la creazione di qualsiasi forma di opposizione legalmente organizzata è in realtà impossibile, perché significa condannarsi a morte” (“Uroki istorii”).
Determinato a conservare la memoria del proprio passato, nel 2005 Dremljuga partecipò alle riprese del film-documentario Oni vybirali svobodu (Loro scelsero la libertà)[3], dedicato ai protagonisti del dissenso sovietico. Nel 2008 rilasciò inoltre una lunga intervista all’Istituto per lo studio dei regimi totalitari di Praga[4] nella quale ripercorreva con orgoglio la sua lunga lotta contro le autorità sovietiche.
Vladimir Dremljuga morì il 26 maggio 2015 a Jersey City.

Note:

[1] La dimostrazione del 25 agosto 1968 coinvolse in realtà otto partecipanti: V. Dremljuga, V. Delone, N. Gorbanevskaja, L. Bogoraz, P. Litvinov, K. Babickij, V. Fajnberg, T. Baeva. Quest’ultima, tuttavia, fu immediatamente rilasciata e gli altri manifestanti in seguito evitarono di parlare del suo coinvolgimento. Per questo motivo l’evento in questione è passato alla storia come “dimostrazione dei sette” (cf. Ermol’cev 2009).

[2] Le notizie relative all’incarcerazione, al processo e alla reclusione di Dremljuga sono contenute nei seguenti numeri della “Chronika”: 4 (1968), 5 (1968), 8 (1969), 10 (1969), 15 (1970), 20 (1971), 21 (1971), 22 (1971), 32 (1974), 34 (1974). L’archivio del bollettino è disponibile all’indirizzo http://hts.memo.ru/, online (ultimo accesso: 30/06/2021).

[3] Oni vybirali svobodu è un film-documentario in quattro puntate, diretto da Vladimir Kara-Murza e trasmesso dall’emittente RTVI nel dicembre 2005. La pellicola cerca di ripercorrere alcuni momenti chiave della storia del dissenso in URSS. Tra i protagonisti del film si ricordano: E. Bonner, V. Bukovskij, N. Gorbanevskaja, V. Dremljuga, A. Esenin-Vol’pin, P. Litvinov, S. Kovalëv, N. Koržavin, E. Kuznecov, Ju. Orlov, A. Podrabinek, V. Fajnberg, A. Ščaranskij. Gli episodi sono visibili su Youtube ai seguenti indirizzi: primo episodio https://www.youtube.com/watch?v=ly6olJjjJ38, secondo episodio https://www.youtube.com/watch?v=4BlY39J3Hpo, terzo episodio https://www.youtube.com/watch?v=WAyHqgVctGg, quarto episodio https://www.youtube.com/watch?v=JfaofpDxiKY, online (ultimo accesso: 30/06/2021).

[4] L’intervista è disponibile sulla pagina web ufficiale dell’Istituto per lo studio dei regimi totalitari di Praga, https://www.ustrcr.cz/uvod/vzdelavaci-projekt-pamet-a-dejiny-totalitnich-rezimu/protesty-proti-okupaci-ceskoslovenska-v-roce-1968/vladimir-dremljuga/, online (ultimo accesso: 30/06/2021).

Beatrice Bindi
[30 giugno 2021]

Lavoro tratto dal seminario “Movimento dei diritti civili in URSS” tenuto da Ilaria Sicari (Corso di Letteratura Russa, CdS magistrale in Lingue e Letterature Europee e Americane, Università degli Studi di Firenze, a.a. 2019/2020).

Bibliografia

Cita come:
Beatrice Bindi, Vladimir Dremljuga, in Voci libere in URSS. Letteratura, pensiero, arti indipendenti in Unione Sovietica e gli echi in Occidente (1953-1991), a cura di C. Pieralli, M. Sabbatini,  Firenze University Press, Firenze 2021-, <vocilibereurss.fupress.net>.
eISBN 978-88-5518-463-2
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