Intervista al poeta Dmitrij Jul’evič Strocev (Minsk, 1963)
a
 cura di G. De Florio e F. Iocca

Kim Chadeev, fonte Ohlumon, CC BY-SA 3.0 Wikimedia Commons.

La situazione bielorussa durante e dopo la Seconda guerra mondiale
La Minsk sovietica della seconda metà del Novecento era ben diversa da Leningrado, Mosca o Kiev. In queste città, nonostante le varie repressioni ed epurazioni, rimaneva comunque un legame tra le generazioni, veniva trasmesso un messaggio. Minsk invece, dopo la Seconda guerra mondiale, ha dovuto ricominciare dal principio, con persone diverse, perché dopo la liberazione erano rimasti soltanto 40.000 abitanti, mentre a metà degli anni Settanta sarebbero già stati un milione e mezzo.
Per quanto riguarda la guerra bisogna dire che è stata molto complessa, perché sul territorio bielorusso agivano alcuni gruppi partigiani autonomi, due eserciti polacchi – uno pro-URSS e l’altro ‘borghese’; un gruppo partigiano ebreo e alcuni bielorussi, autonomi o legati allo stato maggiore sovietico. La situazione perciò era molto caotica e non è stata ancora chiarita del tutto, visto che non tutti i documenti sono accessibili.
Nella Bielorussia postbellica esistevano dei circoli non conformisti, ma spesso non erano in contatto tra loro, forse perché non si conoscevano o non si fidavano l’uno dell’altro; alcuni gruppi invece erano in contatto con Mosca e Leningrado. Qui a Minsk quindi non c’era uno spazio omogeneo di non conformismo.
L’intelligencija bielorussa in primo luogo si raccoglieva intorno all’idea di salvaguardare la propria lingua e costituirsi come ultimo baluardo della propria nazionalità.
I russi erano principalmente quelli arrivati da ogni parte dell’Unione Sovietica nella Minsk scientifica e industriale, una città in forte via di sviluppo economico ed espansione edilizia. Come i miei genitori, ad esempio. Non conoscevano nessuno originario di Minsk, avevano una vaga idea della cultura bielorussa, non capivano la lingua. I loro amici erano i colleghi di lavoro.
Minsk si presentava anche come uno spazio privilegiato per i pensionati sovietici di spicco. Qui si mandavano a riposo ex militari, funzionari del partito e agenti del KGB. Minsk e tutta la Bielorussia acquisivano, per così dire, una nuova sostanza.
Il primo incontro con ‘un altro mondo’ e con il samizdat
Sono nato nel 1963. Sono cresciuto in una famiglia sovietica, mio papà e mia mamma erano ingegneri. Certo, al Partito e al Komsomol guardavo a modo mio, con un certo scetticismo e con ironia, ma le mie idee erano sovietiche al cento per cento. Non volevo la guerra in Afghanistan, è vero, ma la critica al regime restava nei limiti dell’autocoscienza sovietica. Non appena però mi iscrissi all’università, nel 1980, mi portarono a casa di Kim Chadeev, non tanto perché io volessi incontrare un dissidente, ma perché avevo iniziato a interessarmi di letteratura e quel gruppo dedicava grande attenzione all’argomento. Per questo motivo un poeta di mia conoscenza, mio coetaneo, mi portò là. Arrivai e per me fu uno shock. Mi avevano portato in un casermone, costruito nel centro della città nell’immediato dopoguerra dai prigionieri tedeschi, in via Kiselev. Chadeev viveva in un monolocale e quando varcai la soglia di casa sua entrai in un altro mondo, dove anzitutto le persone sembravano parlare in un’altra lingua: utilizzavano un linguaggio osceno e scurrile, dicendo tutto ciò che pensavano del potere sovietico. In secondo luogo, lì c’erano il samizdat e il tamizdat.
C’erano libri originali, pubblicati in Europa e negli USA, c’erano copie preparate attraverso la fotoriproduzione o la rotativa: Solženicyn, Erofeev, Sokolov, la filosofia religiosa russa, Berdjaev, c’era di tutto. I libri arrivavano e noi li leggevamo a turno. Ma non poteva esistere un sistema editoriale. Chadeev era troppo nel mirino, non avrebbe mai potuto intraprendere un’attività editoriale. Era un articolo del codice penale. Quando la morsa si allentò un po’, a metà degli anni Ottanta, cominciarono ad arrivare i libri di Cvetaeva, Bulgakov ecc., stampati su rotativa; noi li squadravamo, li rilegavamo e ne facevamo dei libri.
Kim Chadeev come figura centrale dell’epoca
Kim Chadeev veniva da una famiglia di funzionari del Partito. Suo padre era un importante dirigente che si occupava del commercio a Minsk. Non era originario della città. Durante la guerra la madre era stata legata agli organi di Partito, se non addirittura alla polizia segreta. Dopo divenne una semplice insegnante di russo. Secondo la leggenda, i genitori di Chadeev erano stati oppositori del regime, trockisti.
Kim era un bambino prodigio, aveva terminato la scuola da privato, ed era stato ammesso alla Facoltà di Lettere a 15 anni, o giù di lì. Al terzo anno, due mesi dopo l’assassinio di Michoėls, durante una riunione del Komsomol, suggerì con piglio polemico di uccidere Stalin e fare un colpo di Stato. Era una follia, è chiaro. Non lo arrestarono subito, ma iniziarono a tenerlo d’occhio per capire chi frequentasse. Seguendo la splendida usanza sovietica, immediatamente presero tutti le distanze, solo due-tre persone continuavano a stringergli la mano incontrandolo. Alla fine, grazie all’interessamento del padre, la cosa venne un po’ messa a tacere, Kim non fu fucilato, ma gli diedero la prima condanna; lo misero in prigione, liberandolo subito dopo la morte di Stalin.
Quando uscì, riprese piuttosto in fretta all’università, anche se la vita era difficile e lui era molto solo. Il premio Nobel Žores Ivanovič Alfërov, un ex compagno di scuola di Kim, era arrivato nel frattempo a Leningrado e incontrando Kim per strada si era precipitato verso di lui, abbracciandolo con affetto. Kim aveva confessato con amarezza al compagno di scuola che era stato il primo dei suoi conoscenti che, vedendolo, non aveva cambiato lato della strada.
Già nei primi anni Sessanta però, a Minsk, intorno a Kim si riunì un nutrito gruppo di giovani intellettuali perché era una persona incredibilmente carismatica. Era in contatto con i dissidenti di Mosca e Leningrado; nel 1962 ebbe luogo il secondo processo legato a Kim, sempre all’università. Fu un processo farsa contro il cosiddetto “gruppo di Chadeev”. Ma con una differenza: se nel primo caso, negli anni Quaranta, c’erano molti documenti o articoli nei giornali studenteschi e locali che, pur non dicendo apertamente che Chadeev aveva suggerito di uccidere Stalin, lo dipingevano comunque come un antisovietico e come un nemico del popolo sovietico, negli anni Sessanta tutto questo si faceva in maniera nascosta: si tenevano grandi riunioni diffamatorie, ma se ne scriveva in maniera meno diretta.
Ci fu persino un episodio divertente: in una di queste riunioni uno degli accusatori intervenne dicendo che bisognava mandare quei delinquenti del ‘gruppo di Chadeev’ a rieducarsi in fabbrica, intendendo la fabbrica come un luogo di punizione. Tra i presenti c’era Semen Bučkin, all’epoca al primo anno di studi e in seguito famoso pubblicista bielorusso, che arrivava proprio dalla fabbrica ed era riuscito ad accedere alla facoltà di giornalismo lavorando in un piccolo giornale di fabbrica. Dopo aver sentito quelle accuse, prese la parola e disse che la fabbrica non era una discarica, ma il miglior posto per ogni degno cittadino sovietico. In seguito fecero indagini anche su di lui, ma grazie a quell’episodio per la prima volta egli sentì pronunciare il nome di Kim Chadeev. Questo esempio dimostra quanto poco le persone capissero cosa succedeva intorno a loro, anche quando ne prendevano parte attiva.
Repressione e diffamazione
Il gruppo era tenuto d’occhio, Kim alla fine fu arrestato perché gli trovarono del materiale samizdat: la prosa di Pavel Ulitin. Era sufficiente per montare un caso. Lo mandarono in prigione per la seconda volta, insieme con l’attore Gorjačij. Altri ragazzi vennero espulsi dagli istituti e dall’università, e non poterono più realizzarsi per il resto della loro vita dal punto di vista professionale. Molti destini furono spezzati, qualcuno morì alcolizzato, altri si suicidarono. E fu messa in giro la voce che Chadeev avesse corrotto di proposito quei ragazzi, perché morissero, per spezzare le loro vite. Si diceva che fosse un collaboratore segreto del KGB, che riunisse attorno a sé i ragazzi per poi incastrarli. Ancora oggi c’è chi lo sostiene e lo pensa. Curioso però che Chadeev vivesse come un paria, che non potesse pubblicare i suoi lavori, che non trovasse un posto di lavoro, mentre a mettere in giro queste voci furono persone che in fin dei conti si realizzarono, facendo delle brillanti carriere sovietiche.
In prigione Kim Chadeev conobbe Aleksandr Asarkan e Jurij Ajchenval’d, brillanti intellettuali e dissidenti. Diventarono la cerchia di Mosca più vicina a Chadeev. Per esempio un allievo di Kim Chadeev, il regista teatrale e pedagogo Vladimir Rudov, sposò una delle figlie di Ajchenval’d, Aleksandra; i due si erano conosciuti perché Rudov era entrato in quel giro grazie a Chadeev. Questo per dire quanto fossero stretti i contatti.
Un altro fatto, ancora più curioso: a Minsk Chadeev veniva regolarmente convocato e interrogato. A un certo punto presero persino a dirgli: “Kim Ivanovič, se ne vada a Leningrado, lì di gente come lei ce n’è a decine. Starà tranquillo, si mischierà agli altri. Qui invece è da solo, ed è un grosso problema, e noi non le daremo pace”. Nella Minsk levigata e tirata a lucido saltava troppo all’occhio, eppure non aveva paura di nulla, diceva quello che voleva, pensava quello che voleva e si comportava in maniera totalmente anticonformista.
L’intelligencija di Minsk e i rapporti con Chadeev
All’epoca l’intelligencija si divideva in due categorie: chi aveva varcato la soglia della casa di Kim e chi non l’aveva fatto. I primi non erano migliori o peggiori dei secondi, ma avevano fatto scelte precise: nella casa dove erano entrati, tutti sapevano che c’erano dei delatori, ma chi ne aveva paura in pratica smetteva di vivere e di respirare. Le autorità tolleravano quell’appartamento perché erano tutti in bella vista: gli studiosi, i letterati, gli artisti.
C’è anche una sorta di ingratitudine tipica di Minsk. Quando c’era un problema di tipo creativo, se c’era bisogno di un brainstorming, gli esponenti di spicco della cultura bielorussa si rivolgevano sempre a Kim; e lui rispondeva ogni volta, mettendo da parte i suoi impegni. Per qualche ragione, però, nessuno di quelli che Chadeev aveva aiutato e salvato, ci ha lasciato testimonianze o ricordi degni.
Potevano andare a trovarlo il direttore del Teatro russo Boris Lucenko o il più importante regista del Teatro bielorusso, Valerij Mazynskij. Supponiamo che avessero una pièce bloccata, che non piaceva a nessuno, con la messa in scena che rischiava di saltare: Kim metteva insieme una squadra e rivedeva il materiale. A quelle riunioni fiume, su base praticamente volontaria, potevano partecipare il poeta Grigorij Trestman, lo scrittore Viktor Genkin, il drammaturgo e traduttore Nikolaj Zacharenko, il compositore Arkadij Gurov e altri. La squadra si murava in casa di Chadeev per qualche giorno, Kim strutturava e conduceva il lavoro in modo geniale. Di norma il materiale di lavoro che ne usciva era chiaro e comprensibile.
Chadeev era amico dei compositori, con loro parlava di teoria della composizione. Con i filosofi filosofava. Ai poeti correggeva le poesie. Scrisse la tesi di dottorato con lo psichiatra Viktor Krugljanskij. Gli piaceva scrivere a quattro o sei mani articoli di critica cinematografica e letteraria. A casa sua teneva lezioni di pedagogia contemporanea. Quando apparve un libro di Pierre Teilhard de Chardin, un monaco e pensatore cattolico, una volta alla settimana un nutrito gruppo di persone iniziò a riunirsi da Kim per ascoltare le sue lezioni e per discutere.
E siccome Chadeev era in contatto praticamente con tutta l’élite artistica, nessuno fu indagato in seguito. Andavano a trovarlo per rivolgergli domande inerenti al proprio ambito professionale. Le autorità non si intromisero, perché erano questioni prive di elementi antisovietici, e poi vietare tutto sarebbe stato impossibile.
La Perestrojka
Quando iniziò la perestrojka e il movimento di rinascita nazionale bielorussa riprese vigore, il pensatore dissidente Kim Chadeev, il poeta non conformista Andrej Ždanov e la maggior parte dei poeti ebrei russofoni si ritrovarono ancora una volta fuori posto, invisibili. La comunità culturale bielorussa si polarizzò chiaramente in base alla lingua; soltanto ora c’è un sensibile avvicinamento.
Furono anni di reciproco raffreddamento, di perdita comune. In realtà i ‘russofoni’ locali non si erano mai staccati dalla cultura bielorussa: Andrej Ždanov traduceva le poesie di Ales’ Rjazanov, Veniamin Blažennyj, quelle di Maksim Tank, Chadeev scriveva articoli su Bogdanovič e così via.
E poi c’era il dramma universale della cultura clandestina. La clandestinità nasce come reazione a una condizione patologica della società, e reca in sé inevitabilmente uno stigma: per l’uomo comune chiunque abbia qualche rapporto con la clandestinità risulta una figura strana.

Bibliografia

  • Strocev D., Terra sorella, a cura e trad. it. di G. De Florio, Valigie Rosse, Firenze 2020.

Cita come:
Dmitrij Strocev, Kim Chadeev e il non conformismo in Bielorussia. Intervista a cura di G. De Florio e F. Iocca, in Voci libere in URSS. Letteratura, pensiero, arti indipendenti in Unione Sovietica e gli echi in Occidente (1953-1991), a cura di C. Pieralli, M. Sabbatini,  Firenze University Press, Firenze 2021-, <vocilibereurss.fupress.net>.
eISBN 978-88-5518-463-2
© 2021 Author(s)
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