“L’uomo che canta”, Aleksandr Nikolaevič Bašlačëv, nasce nel 1960 a Čerepovec. È l’epoca dei ‘plastinki na rebrach’ (dischi sulle costole) e della beatlemania. Negli anni Settanta, il rock prende forma e afferma la sua identità specifica in URSS, contaminato da sonorità del folklore slavo e della tradizione della canzone d’autore russa. Una volta superata l’imitazione dei modelli occidentali si prepara il terreno per la fioritura di gruppi ed espressioni originali, che si affermeranno sulla scena degli anni Ottanta. In questo ultimo decennio della storia dell’URSS, Bašlačëv lascia una traccia indelebile e sui generis nella tradizione rock sovietica. Secondo il critico musicale e giornalista Artemij Troickij, Bašlačëv è colui che ha sollevato la “musa del rock al livello della tradizione culturale russa” e la sua carica spirituale sarebbe accostabile a certi film di Tarkovskij (Troickij 1990: 45). Altri, come Evgenij Evtušenko considerano Bašlačëv un poeta puro, di una nuova generazione di artisti nati durante il disgelo.
Prima di dedicarsi completamente alla musica, Bašlačëv tenta di iscriversi alla facoltà di giornalismo di Leningrado, ma l’assenza di pubblicazioni gli impedisce di superare la seconda prova di ammissione. In alternativa, si iscrive alla stessa facoltà dell’Università di stato degli Urali A. M. Gor’kij. In questo periodo iniziano le prime esperienze e collaborazioni musicali. Dopo l’università, Bašlačëv torna a Čerepovec e lavora come giornalista presso la rivista “Kommunist”. Anche se tale impiego non rispondeva agli interessi dell’autore (cf. Muzej A. Bašlačëva), grazie al buon lavoro svolto, gli viene concesso di aprire una rubrica, “Sette note nel taccuino”, dove può scrivere di musica e concerti (ibidem.). Nel 1985 Artemij Troickij si reca in città e tramite l’allora emergente reporter Leonid Parfënov conosce il giovane artista (Troickij 1990: 46). Ne rimane estremamente colpito e lo aiuta ad esibirsi in concerto in diverse città della Russia. Di lì a breve Bašlačev si trasferisce a Leningrado e dal 1985 al 1987 inizia il periodo più intenso della sua attività creativa e artistica: si esibisce in più di 200 concerti (ibidem), tra kvartiniki (concerti domestici), festival e altre occasioni. Per Bašlačev la dimensione dialogica dell’interazione con il pubblico è fondamentale, tant’è che non registrerà mai un album in senso stretto. La sua performance si realizza semplicemente con la chitarra, senza un gruppo: il suo ritmo estremamente personale, varia da performance a performance e mal sopporterebbe i limiti posti da una batteria. Questo elemento lo porta sulla scia della tradizione dei bardy (cf. Rojtberg 2020, p.67), dalla quale però egli si discosta per la sua estetica rock. In questo senso, Bašlačev raccoglie l’eredita artistica e performativa di Vladimir Vysockij, il quale nell’ambito della canzone d’autore di epoca sovietica, è l’artista che per stili, portata mediatica ed energia performativa, si avvicina di più allo spirito del rock sovietico (cf. Domanskij 2001). Il 17 febbraio 1988, all’età di soli ventisette anni, si getta dalla finestra dell’appartamento dove si era trasferito a Leningrado. Le circostanze dell’accaduto non sono mai state chiarite, ma probabilmente si trattò di suicidio, forse dovuto alla prolungata crisi artistica esperita nel 1987.
“Io so perché cammino sulla terra, mi sarà più facile volar via” (Bašlačëv in Naumov 2017: 99) diventerà una delle citazioni più frequenti dell’opera bašlačëviana: il tragico epilogo nutre e irraggia il mito. Lo studio di Bašlačëv riceve, subito dopo la sua morte, uno slancio inedito. Oggi, a tre decenni di distanza, si parla di bašlačëvedenie, un filone di studi sul poeta e cantante e vanta centinaia di pubblicazioni di taglio giornalistico, biografico, ma anche di indagine filologica e musicologica. I fattori che hanno determinato il grande interesse per l’opera di Bašlačëv sono molteplici, tanto più se si considera che in vita la sua opera era diffusa solo in cerchie relativamente ristrette e priva di pubblicazioni ufficiali. Sulla scena musicale degli anni Ottanta il rock russo era definitivamente passato alla veste elettrica, mentre Bašlačëv proseguì sulla scia di un modus operandi desueto, sebbene i suoi testi risultassero attuali in relazione alla tradizione rock poetica. I temi affrontati parlano all’uomo, alla società coeva, agli anni della Perestroika, così pregni di cambiamenti e contraddizioni. Nei suoi testi troviamo citazioni al cinema sovietico, alla cultura popolare, alla realtà sovietica. Così, quando nel 1990 viene pubblicata la prima raccolta delle sue poesie, Posošok (Il bicchiere della staffa) per molti si trattò di una grande scoperta. E il suo brano Vremja kolokol’čikov (Il tempo delle campanelle) diventerà a posteriori l’inno del rock sovietico degli anni Ottanta.
Gli studiosi si sono cimentati nella periodizzazione del percorso artistico di Bašlačëv, dividendone la breve carriera in periodi diversi, dai quattro ai sei. Tuttavia, l’intera produzione (a noi nota[1]) include circa 60 poesie, si dispiega in circa tre anni e presenta coesione tematica e stilistica. La prima fase, fino al 1984, è caratterizzata da una inferiore complessità in termini poetici, le metafore sono più trasparenti, i temi più radicati nella realtà. La seconda fase, quella più matura, presenta immagini via via più oscure e potremmo dire metafisiche. Non è ancora disponibile una edizione critica delle opere, il punto di riferimento principale restano le registrazioni, mentre tra le pubblicazioni, si attinge principalmente alla terza edizione della biografia di Lev Naumov: Aleksandr Bašlačëv: čelovek pojuščij (Aleksandr Bašlačëv: l’uomo che canta) (2013). Complessivamente, i temi ricorrenti della sua poesia si rifanno a una Russia rurale e dipingono un mondo popolato da grano, campane, campanelle, zvonari [campanari], fuoco, gelo e mulini. Anche il riferimento alle stagioni è cronotopo e cifra ricorrente nella poetica bašlačeviana, basti ricordare Zimnjaja skazka [Favola d’inverno], Osen’ [Autunno], Peterburgskaja svad’ba [Nozze Pietroburghesi]. In un certo senso, l’insistenza su tali tematiche è insolita per un autore nato e cresciuto in una famiglia dell’intelligencija di Čerepovec, città squisitamente industriale.
Di quella che si è definita come prima parte del percorso artistico di Bašlačëv fa parte un brano frutto dell’esperienza lavorativa presso il giornale “Kommunist” di Čerepovec. Nel settembre 1984, poco prima di lasciare il lavoro, il poeta scrive il brano Slët Simpozium (Riunione-simposio), che viene definito dall’autore come il suo ultimo reportage (Bašlačëv 1992). L’azione è ambientata nella quinta riunione-simposio delle città della regione di Vologda; nel testo l’autore fa ironia sui valori sovietici dello stacanovismo: l’altisonante retorica viene interrotta da inviti, da parte dei diplomatici europei, a prendere parte prima a una “colazione diplomatica”. Segue un primo rifiuto, perché “Nessuno di noi ha fatto colazione, abbiamo cose più importanti da fare” (Bašlačëv in 2017: 81). Durante la nervosa lettura del telegramma che recita “Insisto umilmente! Accettate l’invito! Pranziamo insieme. Bruxelles copre le spese” (ibid.), il silenzio “teso e opprimente” viene spezzato da “un brontolio affamato nelle viscere cieche della piccola città di Šiša”. Il nome della città, che non esiste, fa sarcasticamente riferimento al colloqualismo ni šiša [un accidente]. Non manca, dunque, nella sua poesia, una satira radicata nella società dell’epoca, con i suoi realia e i suoi paradossi.
I simboli dell’universo di Bašlacëv rappresentano allegorie e metafore che riguardano in particolare la “missione del poeta” di concepire, creare e plasmare arte, dando voce al popolo, e il contrasto tra la voce della società, della religione e quella del malen’kij čelovek [piccolo uomo], così come emerge nel già citato Vremja kolokol’čikov [Il tempo delle campanelle].
Un altro tema fondamentale è rappresentato dal grano, che si esprime compiutamente in brani come Kak vetra osennie [Come venti d’autunno] e Testo [Impasto]. Come si evidenzia in altri testi, la tensione tra morte-vita e il motivo del grano rimandano al motivo biblico del Vangelo di Giovanni: “In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Gv 12, 24). Bašlačëv, coglie e rielabora il concetto non prendendolo direttamente dai Vangeli, ma attraverso la mediazione di Dostoevskij, che apre I Fratelli Karamazov proprio con l’epigrafe citata (cf. Bondarevskaja 2007: 80). Il rimando biblico racchiude una importante funzione concettuale ed ermeneutica dell’opera. Analogamente, i significati del brano di Bašlačev che si dispiegano nella metafora del seme come potenziale artistico rappresentano un’eredità semantica del concetto di grano, che ha radici nella tradizione folklorica slava precristiana. La suddetta metafora si esplica ulteriormente nella poesia “Impasto” dove il poeta sembra guidarci, attraverso una successione di verbi all’infinito, proprio all’interno di una ricetta per poeti (cf. Starodumova 2010).
Data la ricchezza dei suoi riferimenti intertestuali e le analogie biografiche, l’accostamento più diffuso rispetto ai classici della poesia russa è quello con Puškin. In parte, probabilmente, tale legame è stato sottolineato anche in virtù della necessità, sentita da alcuni filologi, di giustificare l’inclusione del poeta nella grande tradizione letteraria. In ogni modo, l’autore è stato incluso anche nei manuali scolastici[2] e la sua unicità letteraria è messa in luce dai suoi procedimenti poetici, dalla sua ossessione per la parola, dal suo giocare con le frasi alate e i fraseologismi. Ad esempio, nel testo Nozze pietroburghesi, l’eroe della poesia si muove in un drammatico scenario come in un percorso sinestetico: gli elementi olfattivi e uditivi (lo scampanellio, i cavalli grondanti sudore), sono accompagnati dalla privazione della vista. Il misterioso “povero amico” del poeta resta accecato da dei fari neri che lo raggiungono sul suo pince-nez incrinato. In realtà, questi versi presentano un gioco lessicale basato sul fraseologismo sinjak pod glazom, ovvero avere gli occhi neri a causa di un colpo ricevuto. Questa forma di violenza evocata nel dispiegarsi della canzone si confonde con la personificazione di una Pietroburgo al contempo carnefice e vittima dalla storia.
La densità di riferimenti storici, o brani segnati da una tagliente ironia come la citata “Riunione-simposio” non devono però non deve portarci a leggere i suoi brani come quelli di un dissidente politico. In Bašlačëv, così come canta l’io lirico della sua poesia Slučaj v Sibiri (Avvenne in Siberia) si risente assai quando il suo interlocutore provinciale, ascoltando le sue canzoni, le interpreta in chiave antisovietica “Mi vergognai d’aver cantato. Per come lui lo intese” /<…> Perché poté aggiungere le corna alla mia icona”. L’icona è simbolo sacro e dissacrato, rappresentazione tragica del mondo interiore dell’autore e di quella Russia a cui Bašlačëv dà voce attraverso l’evocazione rock di antiche sonorità slave, del tempo arcano ‘delle campanelle’.
In tal modo, Bašlacëv si distingue come figura centrale capace di inscrivere nella tradizione della cultura rock sovietica elementi della poesia lirica russa.
[1]Si è conservata manoscritta una parte estremamente esigua della produzione, conservata presso l’archivio privato della famiglia a Čerepovec, che ha donato molti materiali al museo locale dedicato a Bašlačëv.
[2] Ad esempio, nel manuale per la terza classe è presente la poesia Roždenstvenskaja [Poesia di Natale] R.N. Buneev, E. V. Buneeva, V Odnom Sčastlivom detstve [In un’infanzia felice], čast 2[seconda parte], S-INFO – Ballas, Moskva 1994.
Sara Manzi
[30 giugno 2023]
Bibliografia
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Cita come:
Sara Manzi, Aleksadr Bašlačëv, in Voci libere in URSS. Letteratura, pensiero, arti indipendenti in Unione Sovietica e gli echi in Occidente (1953-1991), a cura di C. Pieralli, M. Sabbatini, Firenze University Press, Firenze 2021-, <vocilibereurss.fupress.net>.
eISBN 978-88-5518-463-2
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