Kiev, 1923-Mosca, 1982

Pëtr Jakir con la figlia Irina, anni ’80. Fonte: https://v-strane-i-mire.livejournal.com/230606.html.

Nato nel 1923 a Kiev, Pëtr Jakir visse in prima persona gli anni del Grande Terrore (1936-38), quando le repressioni staliniane messe in atto dall’NKVD, Narodnij komissariat vnutrennich del (Commissariato del Popolo per gli Affari Interni) si fecero particolarmente dure e a farne le spese non furono solo i semplici cittadini sovietici, ma anche gli stessi dirigenti del PCUS, tra cui suo padre Jona Jakir, figura di spicco del governo sovietico. Sullo sfondo di questa tragedia personale nasce l’importantissima testimonianza di Pëtr Jakir, pubblicata nel 1972 in tamizdat dalla casa editrice MacMillan di Londra con il titolo Childhood in Prison. Recollections of Pëtr Jakir – traduzione dell’originale russo Detstvo v tjur’me. Memuary Pëtra Jakira (Infanzia in prigione. Memorie di Pëtr Jakir) – un’opera caratterizzata da un duplice carattere, essendo sia un atto denuncia dei soprusi perpetuati dalla macchina del potere sovietico, che una testimonianza storico-documentale.
Le memorie di Jakir hanno inizio il 30 maggio 1937, quando il padre riceve una telefonata da K. E. Vorošilov, allora ministro della difesa in URSS, che gli ordina di recarsi a Mosca col primo treno. Il giorno seguente ad aspettare Jona Jakir in stazione c’erano alcuni uomini dell’NKVD. Pëtr Jakir descrive il profondo stato di ansia e di irrequietezza che aveva colto il padre alla notizia dei numerosi arresti eseguiti dall’NKVD nelle ultime settimane, il più eclatante dei quali era stato quello del generale M. Tuchačevskij.
Da quel momento la loro casa fu costantemente sorvegliata dagli agenti della polizia politica: le perquisizioni andarono avanti per diversi giorni, impegnando anche venti agenti alla volta nella ricerca di qualsiasi prova che potesse servire da pretesto per incriminare il padre. L’8 giugno la madre, Sarra Jakir, fu contattata dall’NVKD con l’ordine di abbandonare Kiev assieme a tutta la famiglia: fu così che si trasferirono ad Astrachan’, città a sud della Russia europea che, già dall’inizio degli anni Trenta, rappresentava un luogo di confino per coloro che erano imparentati con i nemici del popolo (vragi naroda). L’11 giugno abbandonarono Kiev e la sera stessa appresero dal giornale che Jona Jakir era stato giudicato colpevole e, quindi, condannato a morte per fucilazione. Arrivati a Mosca la mattina seguente, lessero che le condanne erano state eseguite. Ad aspettarli in stazione c’erano due agenti dell’NVKD che trattennero in ufficio Sarra Jakir per quasi due ore.
Nonostante l’esecuzione del marito fosse già avvenuta, gli agenti tentarono di estorcerle una testimonianza che attestasse la colpevolezza del marito, ma lei rifiutò di farlo. Questo non fu un grande problema per la macchina del fango sovietica che, con ogni mezzo, si mise in moto per dare avvio ad una campagna denigratoria nei confronti della vittima: il giorno dopo sulla “Izvestija” fu pubblicata una sua falsa ammissione circa i presunti reati del marito.
Il 14 settembre 1937, dopo l’ennesima perquisizione, Pëtr Jakir e sua madre furono arrestati poiché gli agenti dell’NKVD avevano rinvenuto in casa loro un libro di edizione tedesca sulla cui copertina era raffigurata una svastica: Sarra Jakir fu privata del passaporto e condannata a 5 anni di detenzione con l’accusa ­– che immancabilmente colpiva i familiari delle vittime delle persecuzioni politiche – di essere un ‘membro della famiglia del traditore del popolo’ (člena sem’i izmenika rodiny); il piccolo Pëtr Jakir fu invece rinchiuso in un carcere minorile e, da quel momento, trascorrerà in prigione ben 17 anni. In carcere incontrò Valentina Savenkova (1924-1982), sua futura moglie, dalla cui unione nascerà la figlia Irina [1] (1948-1999).
Nel 1969 fu fondato il “Gruppo di iniziativa per la difesa dei diritti dell’uomo in URSS” (Iniciativnaja gruppa po zaščite prav čeloveka v SSSR), alla cui creazione prese parte lo stesso Jakir. La sua attività in difesa dei diritti continuò senza sosta fino al 1972, anno in cui fu arrestato. Il 20 maggio di quell’anno Jakir rilasciò un’intervista alla Associated Press durante la quale insinuò che, durante l’ultimo incontro tenutosi tra Nixon e Brežnev, questi non avrebbero discusso della questione delle reiterate violazioni dei diritti dell’uomo in URSS perché non previsto dall’agenda, aggiungendo: “[…] che la smettano di arrestare o rinchiudere in un ospedale psichiatrico per le proprie opinioni. È ora di finirla con il medioevo” (Clementi 2007: 177). Poco più di un mese dopo, il 21 giugno 1972, Jakir fu arrestato a Mosca con l’accusa di aver infranto l’articolo 70 (attività antisovietica) e l’articolo 210 (istigazione al reato di un minorenne) del Codice penale dell’RSFSR.
Il 12 settembre dello stesso anno venne arrestato anche Viktor Krasin, che insieme a Jakir testimonierà contro circa 200 colleghi, inferendo un colpo durissimo al movimento sovietico per la difesa dei diritti umani (pravozaščitnoe dviženie). Come conseguenza del loro tradimento vennero arrestati anche la figlia e il genero di Jakir, il famoso bardo, cantautore, nonché pravozaščitnik Julij Kim.
La figlia Irina testimoniò solo contro se stessa, affermando di aver curato la redazione dei numeri dal 12 al 27 dell’almanacco Chronika tekuščich sobytii, ovvero a partire dal 1970, anno in cui era stata arrestata la prima redattrice del bollettino samizdat, Natalija Gorbanevskaja. Sotto le pressioni del KGB, in una lettera dalla prigione Jakir pregò Sacharov di interrompere la sua attività ‘antisovietica’; analogamente, Krasin scrisse una Lettera agli amici fuori nella quale si rivolgeva a tutti i componenti del movimento democratico che era diventato, a sua detta, pericoloso per il governo e, pertanto, li incitava a cessare ogni attività (cf. Clementi 2007:177).
Nell’agosto del 1973 Jakir inferse il colpo definitivo al movimento, scrivendo una dichiarazione in cui accusava la Chronika di mancanza di obiettività e di aver prodotto e diffuso notizie false, aggiungendo, inoltre, che la pubblicazione di ogni ulteriore numero del bollettino avrebbe influito negativamente sulla durata della sua pena (cf. ibid.).
Come se non bastasse, quindi, non solo Jakir rinnegò pubblicamente la sua attività passata, ma scaricò sulle spalle dei suoi vecchi compagni di lotta la responsabilità della sua permanenza in carcere. Il processo a carico di Pëtr Jakir e Viktor Krasin iniziò il 27 agosto 1973 e il primo settembre i due furono condannati a tre anni di lager e tre di confino. Dopo la condanna, il 5 settembre tennero una conferenza stampa alla Casa dei giornalisti di Mosca (Dom žurnalistov), alla quale furono ammessi in via del tutto eccezionale e, per ovvie ragioni, sia i giornalisti sovietici che quelli stranieri. Per dare maggior risonanza alla loro ammenda pubblica, essa fu trasmessa dalla televisione sovietica, con lo scopo di screditare definitivamente i dissidenti sovietici. In quell’occasione Jakir pronunciò la sua ritrattazione affermando di essere consapevole che stavano violando la legge e di agire nell’illegalità distribuendo letteratura clandestina. Egli riconobbe di aver scritto in passato documenti sull’abuso della psichiatria a fini repressivi in URSS ma, anche in questo caso, ritrattò la sua posizione, dichiarando che le idee diffuse dal “Gruppo di iniziativa per la difesa dei diritti dell’uomo” erano infondate. Entrambi affermarono, inoltre, di aver confessato in seguito a una lunga riflessione e di non aver subito in nessun modo minacce o pressioni di qualsiasi tipo, così da allontanare ogni illazione sul fatto che stessero rilasciando le proprie dichiarazioni su pressione della polizia politica e del partito. La volontà di sottolineare questo punto lasciava trasparire un’altra verità, contraria e opposta, che si sarebbe manifestata in maniera lampante allorquando si fossero confrontate tali affermazioni con quelle rilasciate dallo stesso Jakir appena tre anni prima (1970) all’emittente americana CBS: “Evidentemente ci arrestano perché le autorità non sono contente delle persone che le criticano. Ma il fatto è che non è più possibile tornare indietro. Quando non ci saremo noi, ce ne saranno altri. Ce ne sono già tanti. Ci sono molti giovani, tutti gli intellettuali dell’Unione Sovietica. Non torneranno indietro. Loro picchieranno, uccideranno ma, nonostante questo, la gente penserà diversamente” (Sovetskie dissidenty v CBS Evening News, 1970).
Non si fece attendere la risposta del “Gruppo di Iniziativa”, che specificò come tutti le notizie diffuse dal bollettino erano documentate e verificate; e che il Gruppo non aveva lo scopo di sovvertire l’ordine costituzionale del paese, ma di opporsi alle azioni illegali perpetrate dalle istituzioni sovietiche e, in particolare, all’abuso della psichiatria per scopi repressivi. Fecero notare, infatti, che alla citata conferenza partecipò pure Andrej Snežnevskij, uno dei direttori del tristemente famoso Istituto Serbskij di Mosca, nonché principale teorico e sostenitore della diagnosi di ‘schizofrenia a decorso lento’. Sollevarono dubbi circa l’attendibilità di quanto detto da Jakir e Krasin, denunciando le probabili minacce e gli abusi condotti ai danni dei due e, persino, la modalità con cui furono condotte le indagini e l’udienza (dal lungo isolamento al quale furono obbligati, al divieto di colloquio diretto o indiretto con i familiari, all’impossibilità di scegliere liberamente gli avvocati, che furono nominati d’ufficio). Tutte queste azioni, scrisse il Gruppo in un comunicato, “spezzano la personalità dell’individuo e costringono a rinnegare le proprie azioni, quelle dei propri compagni e se stessi” (Clementi 2007: 178).
Questa confessione rappresentò una vittoria simbolica dal peso specifico enorme per il potere sovietico, che riuscì addirittura nell’intento di umiliare, quasi corrompere, due tra i più rappresentativi dissidenti dell’epoca. Andropov, allora a capo del KGB, si rallegrò del fatto che la stessa Radio Svoboda considerasse il processo di Jakir e Krasin  il ‘colpo definitivo’ per il movimento e l’anno successivo (1974) rilasciò una dichiarazione in cui affermò che il pentimento di Jakir e Krasin avesse “permesso in modo significativo la localizzazione di attività antisociali […] così come lo smascheramento di azioni ostili da parte di centri ideologici del nemico e di organizzazioni antisovietiche estere” (Clementi 2007: 178).
Le dichiarazioni esternate alla Casa dei giornalisti di Mosca assicurò a Jakir e Krasin uno sconto della pena iniziale (tre anni di lager e tre di confino), commutata subito dopo in tre anni di lager. Ma già nel 1974, per concessione del Presidium del Soviet Supremo, a Jakir fu concesso di tornare a Mosca, vista la distanza che aveva mantenuto dalla vita politica. L’attività di dissidente e attivista per i diritti umani di Jakir ebbe così un epilogo doloroso e tragico: stanco di una vita fatta di privazioni iniziate già in tenera età, durante la conferenza stampa di Mosca del 1973 comunicò egli stesso la sua intenzione di ritirarsi dall’attività di pravozaščitnik.
Scarna sarà anche la sua biografia successiva. Sappiamo che visse gli ultimi anni vittima dell’alcolismo, che gli rovinò in modo irreparabile il fegato: il genero, Julij Kim, sostenne che la morte di Jakir fosse stata provocata dalla cirrosi epatica (cf. Lošak 2013). Morì a Mosca nel 1982, nell’indifferenza generale, a un anno di distanza dalla scomparsa della moglie Valentina.

Note:

[1] Irina Petrovna Jakir ereditò dai genitori il fervore politico; lottò in prima linea nel movimento per la difesa dei diritti dell’uomo (pravozaščitnoe dviženie). Partecipò al Miting Glasnosti del 1969; firmò una dichiarazione in occasione dell’anniversario dell’invasione dell’allora Repubblica Socialista Cecoslovacca; fu una delle redattrici della Cronaca degli avvenimenti correnti  (cf. POLIT.RU 2008).

Ilario Miele
[30 giugno 2021]

Lavoro tratto dal seminario “Movimento dei diritti civili in URSS” tenuto da Ilaria Sicari (Corso di Letteratura Russa, CdS magistrale in Lingue e Letterature Europee e Americane, Università degli Studi di Firenze, a.a. 2019/2020).

Bibliografia

Cita come:
Ilario Miele, Pёtr Jakir, in Voci libere in URSS. Letteratura, pensiero, arti indipendenti in Unione Sovietica e gli echi in Occidente (1953-1991), a cura di C. Pieralli, M. Sabbatini, Firenze University Press, Firenze 2021-, <vocilibereurss.fupress.net>.
eISBN 978-88-5518-463-2
© 2021 Author(s)
Content license: CC BY 4.0