Pravozaščitniki (difensori dei diritti).

In Unione Sovietica il movimento per la difesa dei diritti umani (pravozaščitnoe dviženie) nacque nel 1965, all’indomani dell’arresto degli scrittori A. Sinjavskij e Ju. Daniėl’. Il 5 dicembre 1965 in Piazza Puškin, ai piedi della statua del poeta e proprio davanti alla sede del quotidiano “Izvestija”, fu organizzato il primo “raduno della trasparenza” (miting glasnosti) per chiedere che il processo Sinjavskij-Daniėl’ si svolgesse a porte aperte nel rispetto della Costituzione sovietica di cui quel giorno si celebrava la nascita (cf. Alekseeva 2016: 15). Al raduno parteciparono un centinaio di persone, per la maggior parte studenti. Venti di loro furono arrestati e rilasciati il giorno dopo, altrettante persone furono identificate, ma tutti furono espulsi dall’Università e dagli istituti superiori. Gli organizzatori – A. Esenin-Vol’pin, Ju. Višnevskaja, Ju. Galanskov, V. Bukovskij e L. Gubanov – furono trattenuti, in carcere o negli ospedali psichiatrici, per periodi più lunghi e pagarono a caro prezzo le conseguenze del loro attivismo (cf. Alekseeva 2016: 16-17). Aleksandr Esenin-Vol’pin fu il promotore del primo raduno in Piazza Puškin e autore – assieme a E. Stroeva, e S. Nikol’skij – dell’appello civico (graždanskoe obraščenie) con il quale si richiedeva un processo pubblico per i due imputati nel rispetto della Costituzione Sovietica (cf. ibid.: 15-16). Fu su iniziativa dello stesso Esenin-Vol’pin che i partecipanti al miting rivendicarono il rispetto della legalità e dello Stato di diritto, di fatto negato dall’incostituzionalità di un processo svolto a porte chiuse. Per non incorrere a loro volta in alcuna violazione delle leggi sovietiche, i manifestanti furono edotti a non opporre resistenza in caso di arresto e a non scandire alcuno slogan, limitandosi a srotolare dei manifesti recanti degli slogan non offensivi nei confronti del potere, che invitavano al rispetto della Costituzione (“Uvažaite Konstituciju”) e chiedevano un processo trasparente per gli imputati (“Trebuem glasnosti suda”) (cf. ibid.: 16-17). Questa strategia divenne il tratto distintivo del movimento sovietico per la difesa dei diritti umani.
A partire dal 1965, per dieci anni consecutivi, il 5 dicembre in Piazza Puškin furono organizzati i cosiddetti “raduni del silenzio” (mitingi molčanija) per rivendicare il rispetto dei diritti umani in Unione Sovietica (cf. Memorial a). Il 5 dicembre del 1976 segnò una svolta nella storia di questi raduni perché, per la prima volta, venne rotto il silenzio e P. Grigorenko pronunciò un discorso. A partire dal 1977, inoltre, in seguito all’approvazione di una nuova Costituzione, i tradizionali raduni in Piazza Puškin in difesa dei diritti umani ebbero luogo il 10 dicembre (cf. Rozenbljum 2015).
Il 22 gennaio 1967 è un’altra data importante per il movimento dei diritti umani sovietico, poiché quel giorno in Piazza Puškin si tenne il terzo miting glasnosti (cf. Memorial b). Il principale organizzatore di questo raduno della trasparenza fu V. Bukovskij. In quell’occasione i dimostranti chiedevano un processo a porte aperte per gli imputati al cosiddetto “processo dei quattro” (process četyrëch) (8-12 gennaio 1968) – Ju. Galanskov, A. Ginzburg, V. Laškova e A. Dobrovol’skij – accusati di aver prodotto e diffuso materiale samizdat e tamizdat, nello specifico la rivista “Feniks 66” e Il libro bianco sul caso Sinjavskij-Daniėl’ (cf. Litvinov 1971: 13-18). Su iniziativa dello stesso Bukovskij, al miting si protestò anche contro l’inasprimento delle pene e delle persecuzioni politiche che limitavano le libertà civili, violando i diritti riconosciuti dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (1948), che era stata sottoscritta anche dall’URSS. A tal scopo, tra i manifesti esposti uno chiedeva la revisione dell’articolo 70 e del decreto del 16 settembre 1966 che inseriva nel Codice penale dell’RSFSF l’articolo 190 (“Trebuem peresmotra antikonstitucionnogo Ukaza i stat’i 70”), considerati incostituzionali poiché impiegati generalmente per incriminare i dissidenti con l’accusa di aver svolto attività antisovietiche di diverso genere: agitazione e propaganda antisovietica (art. 70); produzione, diffusione e detenzione di letteratura clandestina (art. 190-1); vilipendio della bandiera dello Stato sovietico (art. 190-2), organizzazione e partecipazione a manifestazioni non autorizzate che disturbavamo l’ordine pubblico (art. 190-3) (cf. Litvinov 1968: 5). Durante il miting furono arrestati E. Kušev e V. Chaustov, tre giorni dopo fu la volta di V. Delone e il 26 gennaio furono fermati anche V. Bukovskij e I. Gabaj.
Tra i luoghi moscoviti che furono teatro delle proteste per i diritti civili, oltre alla già citata Piazza Puškin e Piazza Majakovskij, bisogna annoverare anche la Piazza Rossa, dove si svolsero alcune manifestazioni altrettanto significative per i difensori dei diritti umani (pravozaščitniki).  Il 5 marzo 1966, in occasione del tredicesimo anniversario della morte di Stalin, fu organizzato un raduno per protestare contro il tentativo di riabilitarne la memoria e per opporsi alla conseguente ristalinizzazione della società e delle istituzioni sovietiche (cf. Memorial c) a cui prese parte, tra gli altri, lo scrittore Vasilij Aksënov, figlio di Evgenija Ginzburg, vittima delle repressioni staliniane e autrice del libro di memorie Viaggio nella vertigine (Krutoj maršrut). Un’altra manifestazione anti-staliniana ebbe luogo nei pressi del lobnoe mesto il 21 dicembre del 1969, alla quale presero parte dissidenti quali P. Grigorenko, P. Jakir e A. Jakobson. Mentre, tra le manifestazioni che sancirono una svolta per il movimento sovietico per la difesa dei diritti umani, si annovera la cosiddetta “dimostrazione dei sette” (demonstracija semerych) alla quale, in realtà, presero parte in otto – N. Gorbanevskaja, L. Bogoraz, V. Dremljuga, P. Litvinov, V. Fajnberg, V. Delone, T. Baeva e K. Babickij – per protestare contro l’occupazione sovietica della Cecoslovacchia.
L’aperta manifestazione del dissenso e la difesa dei diritti umani segnarono una svolta epocale per la società civile sovietica ma, d’altro canto, inaugurarono una nuova stagione politica sul fronte della repressione degli oppositori al regime.
Dopo l’avvento al potere dei bolscevichi, la repressione psichiatrica del dissenso fu sporadica e impiegata ad hoc, proseguendo una tradizione che in Russia fu inaugurata nel 1836, quando lo zar Nicola I fece internare il filosofo russo Pëtr Čaadaev (cf. Bloch-Reddaway 1985: 16). Fu soltanto a partire dagli anni Sessanta, però, che l’impiego sistematico e distorto della psichiatria a fini politici divenne uno degli strumenti principali per sedare in sordina il dissenso sovietico, in spregio ai diritti fondamentali e inalienabili dell’uomo (cf. Clementi 2007: 155-189). Questa subdola forma di repressione, già impiegata ai tempi di Lenin e Stalin[1], divenne infatti programmatica durante il disgelo (ottepel’) e raggiunse il suo apice in epoca brežneviana, quando fu la norma. L’assunto che stava alla base di questo nuovo schema repressivo fu ben illustrato dallo stesso Nikita Chruščëv che, in un’uscita pubblica, dichiarò che in Unione Sovietica non esistevano i detenuti politici poiché nella società socialista non vi erano conflitti sociali e, pertanto, coloro che non erano soddisfatti erano da considerarsi mentalmente instabili (cf. Mal’cev 2004: 131). Il ricorso a questo strumento repressivo rappresentava infatti un grande vantaggio per le autorità sovietiche: derubricare il dissenso consentiva non soltanto di perseguire i dissidenti senza dare troppo nell’occhio, evitando così di attirare l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale; ma riusciva altresì a screditare subdolamente l’opposizione dichiarando pazzi e incapaci di intendere e di volere “coloro che la pensavano diversamente” (inakomysljaščie)[2] (cf. Bloch-Reddaway 1985: 19). Fu così che, per dirla con Vladimir Bukovskij, in URSS venne riconosciuta una nuova malattia mentale: la dissidenza (Bukovskij 1972).
Tale strategia repressiva fu resa possibile con l’ausilio di alcuni membri influenti della comunità scientifica sovietica, primi fra tutti gli psichiatri della cosiddetta Scuola di Mosca, tra cui si distinsero in particolare G. Morozov[3], D. Lunc[4] e A. Snežnevskij[5]. A quest’ultimo si deve infatti la postulazione dei criteri diagnostici della cosiddetta “schizofrenia a decorso lento” (maloprogredientnaja/vjalotekuščaja šizofrenija) – una malattia mentale teorizzata per la prima volta con il nome di “schizofrenia lieve” (mjagkaja šizofrenija) dallo psichiatra sovietico L. Rozenštejn negli anni Trenta e mai riconosciuta dalla comunità scientifica internazionale né dagli psichiatri della Scuola di Leningrado (cf. Zaijcek 2014) – che permetteva di giustificare strumentalmente il comportamento all’apparenza normale del soggetto affetto da questa malattia mentale, spesso considerato assolutamente sano da parenti e amici (cf. Bukovskij 1972: 13; Bloch-Reddaway 1985: 40). Tra i sintomi rivelatori di tale forma di schizofrenia c’erano le manie di persecuzione, la depressione, la paura, il sospetto, le manie di grandezza, ma anche la tendenza al revisionismo e alle formulazioni ideologiche, così da poter adattare al meglio la diagnosi alle specifiche necessità dei singoli casi (cf. Bukovskij 1972: 13). Tra i dissidenti e attivisti sovietici cui fu diagnosticata questa forma di schizofrenia si ricordano P. Grigorenko, A. Esenin-Vol’pin, Ju. Mal’cev, V. Fajnberg, L. Pljuš, V. Tarsis, O. Iofe e molti altri.
L’internamento dello scrittore Valerij Tarsis (1962) e la pubblicazione all’estero nel 1965 dell’opera in cui raccontava la sua esperienza in ospedale psichiatrico – Reparto N. 7 (Palata N. 7) –avevano già avuto il merito di portare alla ribalta del dibattito internazionale l’impiego della psichiatria sovietica a scopi repressivi (cf. Bloch-Reddaway 1985: 20). Tuttavia, a questo mutato clima di denuncia dell’abuso psichiatrico contribuirono pure le numerose iniziative intraprese dal movimento sovietico per la difesa dei diritti umani. Uno tra i primi documenti stilati a tal scopo fu la lettera aperta alle Nazioni Unite del 30 giugno 1969, scritta da Natal’ja Gorbanevskaja e Ljudmila Alekseeva a nome del Gruppo di Iniziativa per la Difesa dei Diritti Umani in URSS (Iniciativnaja gruppa po zaščite prav čeloveka v SSSR)[6], in cui si leggeva: “Nel prossimo futuro i tribunali dovranno emettere alcune sentenze sul trattamento sanitario coatto di alcune persone quali:  Ivan Jachimovič, comunista e presidente di kolchoz, espulso dal Partito e privato del lavoro per aver protestato contro l’illegalità in cui si svolgono i processi, e soggetto a nuove persecuzioni in seguito alla protesta contro l’entrata delle truppe in Cecoslovacchia; Viktor Kuznecov, arrestato a Mosca a causa della sua attività nel circuito samizdat; e, infine, il talentuoso matematico ventenne, laureato dell’Università di Riga, Il’ja Rips, che nell’aprile di quest’anno ha tentato di auto-immolarsi dandosi fuoco in segno di protesta contro l’occupazione della Cecoslovacchia, e quest’unico episodio di cui è incriminato è stato classificato come ‘propaganda e agitazione antisovietica’ […]. Sotto la minaccia dell’’incapacità di intendere e di volere’ e della reclusione in un ospedale psichiatrico penitenziario si trova anche Pëtr Grigor’evič Grigorenko, nei confronti del quale hanno già adottato una volta tale provvedimento. Sotto questa minaccia si trova chiunque è stato o sarà arrestato a causa delle proprie convinzioni, poiché il fatto stesso di essere in disaccordo con le opinioni ufficiali dominanti è considerato dai periti psichiatrici sovietici come il sintomo di una malattia mentale” (Kuzovkin-Makarov 2009 a).
Nonostante questi appelli, però, una piena e significativa risonanza nell’opinione pubblica occidentale si ebbe soltanto nel 1971, grazie alle numerose iniziative intraprese dai dissidenti sovietici per promuovere una poderosa campagna di sensibilizzazione sul tema. Vladimir Bukovskij, in vista del V Congresso Internazionale dell’Associazione Mondiale degli Psichiatri (World Psychiatric Association, WPA) che si sarebbe tenuto proprio in quell’anno a Città del Messico, inviò un dossier contenente numerosi documenti – tra cui le perizie psichiatriche di alcuni dissidenti stilate dagli psichiatri sovietici[7] – chiedendo di esprimere una valutazione scientifica sulla “schizofrenia a decorso lento” diagnosticata dai loro colleghi russi (cf. Bukovskij 1972: 13-14). Il dossier fu accompagnato da una lettera in cui Bukovskij poneva la questione in questi termini: “Nell’Unione Sovietica durante gli ultimi anni sono state internate in ospedale psichiatrico – e in taluni manicomi giudiziari di tipo speciale – parecchie persone che i membri delle loro famiglie, gli amici e i conoscenti giudicano sane di mente. Si tratta di Grigorenko, Rips, Gorbanevskaja, Novodvorskaja, Jachimovič, Geršuni, Fainberg, Viktor Kuznecov, Jofe, V. Borisov e altri, tutti noti per aver preso posizione a favore dei diritti civili nell’URSS. Questo fenomeno suscita un’inquietudine senz’altro fondata. […] Vi sarà grato per l’interesse che porterete a questo dossier e spero che non mancherete di esprimere il vostro parere a riguardo. Mi rendo conto che è quasi impossibile giudicare lo stato mentale di una persona per corrispondenza e senza gli indispensabili dati clinici, sia che il giudizio confermi o neghi la diagnosi. Pertanto vi chiedo un parere limitatamente al seguente quesito: le perizie in questione contengono o no dati sufficienti e scientificamente fondati, per stabilire la presenza di malattie mentali, non solo: ma tali malattie sono così gravi da giustificare il più rigoroso isolamento dalla società delle persone così esaminate?” (Bukovskij 1972: 13-14).
Gli stessi interrogativi furono sollevati dal Comitato per la Difesa dei Diritti dell’Uomo (Komitet prav čeloveka)[8], che pure inviò una lettera alle autorità sovietiche e all’Associazione Mondiale degli Psichiatri in vista del congresso del 1971 (cf. Clementi 2007: 158).  Anche il Gruppo d’Iniziativa si adoperò in tal senso, unendosi alla mobilitazione con un appello rivolto alla WPA nel quale si chiedeva il suo intervento per far cessare gli abusi in URSS, in particolare la consuetudine di dichiarare “incapaci di intendere e di volere” i dissidenti senza le opportune evidenze scientifiche, ma con l’unico scopo di procedere al loro internamento coatto: “Il Gruppo d’Iniziativa per la Difesa dei Diritti Umani in URSS si unisce all’appello e alle mozioni avanzate dal Comitato per i Diritti dell’Uomo per l’elaborazione di misure volte a limitare la possibilità che si verifichino situazioni di arbitrio e abusi nei confronti delle persone riconosciute come psichicamente malate o sottoposte a perizia psichiatrica. Condividendo la preoccupazione riguardo l’insufficienza di garanzie dei diritti di questi soggetti, noi abbiamo ritenuto necessario richiamare la particolare attenzione dei partecipanti al Congresso sulla questione che, a nostro parere, è la più urgente e importante, ovvero quella dei criteri psichiatrici [che stabiliscono] l’incapacità di intendere e di volere, impiegati nelle perizie medico-giudiziarie durante l’indagine e il processo a carico di persone alle quali sono state avanzate accuse politiche. […] Ci auguriamo che il Congresso esamini la questione che abbiamo posto dal punto di vista medico e giuridico. Siamo convinti che il parere degli psichiatri che partecipano al Congresso internazionale possa porre fine alla pratica dell’internamento negli ospedali psichiatrici senza motivazioni sufficienti” (Kuzovkin-Makarov 2009 b).
In quell’occasione, però, tale richiesta fu ignorata dai membri della WPA e al congresso del 1971 non si discusse degli abusi della psichiatria sovietica. Soltanto nel 1977, durante il congresso tenutosi ad Honululu, l’Associazione Mondiale degli Psichiatri ritenne di pronunciare una condanna sull’uso strumentale della psichiatria a scopi politici praticato in URSS. Per le stesse ragioni e per la reiterazione degli abusi, al congresso tenutosi a Vienna nel 1983, gli psichiatri sovietici furono espulsi in blocco dall’Associazione.

Note:

[1] Nei primi anni di vita dello stato sovietico si ricordano, tra i casi di repressione psichiatrica, la condanna all’internamento in ospedale psichiatrico della socialista rivoluzionaria Maria Spiridonova nel 1918 e il tentativo di rinchiudere in un sanatorio psichiatrico Angelika Balabanov nel 1920 (cf. Bloch-Reddaway 1985: 16-17). Mentre, tra il 1931 e il 1936, sono state documentate numerose diagnosi di “schizofrenia lieve” (mjagkaja šizofrenija), una malattia mentale teorizzata e diagnosticata soltanto in URSS (cf. Zajicek 2014: 193), la cui descrizione e i sintomi ad essa correlati erano talmente vaghi da rendere alto il rischio di diagnosi errate o, nei casi peggiori, di un abuso intenzionale a scopi politici (cf. ibid.: 189). Tra i casi documentati in epoca staliniana si ricorda l’internamento di Sergej Pisarev, membro del PCUS rinchiuso in ospedale psichiatrico penitenziario per aver criticato l’operato della Čeka nella fabbricazione del “caso dei medici” (delo vračej, 1951-53) accusati di aver ordito un piano per assassinare Stalin (cf. Bloch-Reddaway 1985: 18-19). Dopo la sua scarcerazione Pisarev si battè per impedire l’impiego distorto della psichiatria e chiese al Comitato Centrale del PCUS che fosse istituita una Commissione d’inchiesta per far luce sulla questione e mettere fine all’abuso psichiatrico, ma, sebbene tale Commissione fu effettivamente istituita, i risultati dell’inchiesta furono del tutto ignorati dalle autorità sovietiche (cf. ibid.: 19).

[2] In russo esistono due termini per riferirsi all’opposizione al regime: dissidentstvo e inakomyslie. Il primo termine ha una forte connotazione politica ed è impiegato in relazione a coloro che erano coinvolti in una lotta ideologica contro il governo, i cosiddetti dissidenti (dissidenty); mentre il secondo, che letteralmente designa “un modo differente di pensare”, è un termine più inclusivo ed è impiegato per riferirsi ad un’opposizione morale ed etica piuttosto che politica, pertanto esso è generalmente usato in relazione all’attività di “coloro che pensano diversamente” (inakomysliaščie) come, ad esempio, gli attivisti per i diritti umani (cf. Komaromi 2012: 71-72).

[3] Georgij Morozov (1920-2012), psichiatra, generale del KGB, direttore dell’stituto Serbskij di Mosca (1957-92), membro dell’Accademia delle Scienze mediche dell’URSS (1975-91), presidente della Società Scientifica dei Neuropatologi e Psichiatri di tutta l’Unione (1975-88). Grazie alla sua influenza fu uno dei principali attori della repressione dei dissidenti politici in URSS per mezzo dell’abuso della psichiatria. Dai suoi oppositori era considerato alla stregua di un činovnik al servizio del potere che aveva asservito la scienza medica al controllo statale e poliziesco dei dissidenti. Ciononostante, Morozov ha continuato a ricoprire cariche importanti fino al crollo dell’URSS e anche nella Russia post-sovietica.

[4] Daniil Lunc (1912-1977), psichiatra e colonnello del KGB. Alla fine degli anni ‘30 prese a lavorare all’Instituto Serbskij di Mosca diventandone uno dei principali collaboratori. Negli anni ‘60 divenne il responsabile del Dipartimento diagnostico dell’Istituto, firmando personalmente le diagnosi di molti dissidenti politici rinchiusi al Serbskij (compresa quella di Natal’ja Gorbanevskaja). Fra gli anni ‘60 e ‘70 divenne cofondatore, assieme ad A. Snežnevskij, della Commissione di psichiatria forense dell’Istituto Serbskij, che aveva il compito di giudicare le condizioni di salute dei pazienti e, in caso di guarigione, autorizzarne le dimissioni.

[5] Andrej Snežnevskij (1904-1983), direttore dell’Istituto Serbskij di Mosca (1950-51) e dell’Istituto di psichiatria dell’Accademia delle Scienze dell’URSS (1962-87); membro della Società Scientifica dei Neuropatologi e Psichiatri di tutta l’Unione. È considerato uno dei fondatori della cosiddetta scuola moscovita di psichiatria. Il suo maggior contributo scientifico fu quello di aver sviluppato una nuova classificazione delle malattie mentali postulando l’esistenza della “schizofrenia a decorso lento”. Attualmente la malattia non è riconosciuta da nessuna classificazione medico-scientifica: l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) non l’ha mai inclusa nella classificazione internazionale delle malattie mentali.

[6] Il Gruppo di Iniziativa per la Difesa dei Diritti Umani in URSS (Iniciativnaja gruppa po zaščite prav čeloveka v SSSR) fu la prima organizzazione indipendente sovietica per la difesa dei diritti umani, fondata nel 1969 da Pëtr Jakir. Tra i principali membri si ricordano Ju. Mal’cev, N. Gorbanevskaja, L. Pljušč e V. Borisov, tutti internati in ospedale psichiatrico per il loro attivismo politico. L’attività del gruppo consisteva nel monitorare le violazioni dei diritti umani in URSS per poi divulgarle sia in patria che all’estero. Il gruppo fu promotore di numerose petizioni e campagne in difesa delle vittime delle repressioni politiche sovietiche.

[7]  Il dossier compilato da V. Bukovskij conteneva una raccolta di documenti ufficiali tra cui le diagnosi formulate dagli psichiatri sovietici che attestavano la malattia mentale di V. Fajnberg, N. Gorbanevskaja e P. Grigorenko; le lettere inviate dagli stessi dissidenti all’ONU e ad altre associazioni internazionali impegnate nella difesa dei diritti dell’uomo; e alcuni testi di denuncia sulle condizioni di vita negli ospedali psichiatrici sovietici che circolavano in samizdat. Questa pubblicazione, unitamente all’appello alla WPA, costò al dissidente il suo quarto arresto e una nuova condanna a 7 anni di carcere duro con l’accusa di “propaganda e agitazione antisovietica” (art. 70). Il dossier fu pubblicato per la prima volta a Parigi dalla casa editrice Seuil (Une nouvelle maladie mentale en URSS: L’opposition, 1971). La denuncia degli abusi della psichiatria in URSS da parte di Bukovskij non si fermò qui: nel 1974 prese a circolare in samizdat un manuale ad uso dei dissidenti sovietici su come difendersi dagli abusi della psichiatria, scritto dallo stesso Bukovskij in collaborazione con lo psichiatra Semën Gluzman – Guida alla psichiatria per dissidenti (Posobie po psichiatrii dlja inakomysljaščich) – che nel 1975 venne pubblicato oltrecortina; mentre alla fine degli anni Settanta uscì in samizdat il romanzo autobiografico sulla sua esperienza in ospedale psichiatrico – Il vento va e poi ritorna (I vozvraščaetsja veter) – pubblicato nel 1978 dalla casa editrice Chronika di New York.

[8] Il Comitato per i diritti dell’uomo (Komitet prav čeloveka) fu fondato nel 1970 su iniziativa di A. Sacharov, V. Čalidze e A. Tvërdochlebov. Nel suo statuto il Comitato si dichiarava un’associazione operante nel rispetto delle leggi sovietiche. Fu il primo gruppo ad ottenere il riconoscimento internazionale cooperando con l’International League of Human Rights e l’International Institute of Human Rights. Per statuto, l’attività del gruppo comprendeva – oltre al monitoraggio e alla diffusione delle violazioni dei diritti umani – anche la cooperazione con il governo per garantire il rispetto di tali diritti. Tuttavia, questa cooperazione governativa non ci fu mai e, al contrario, il KGB si adoperò alacremente per smantellare il Comitato e far cessare la sua attività, riuscendo brillantemente nel suo intento tra la fine del 1973 e il 1974 (cf. Alekseeva 2016: 32-33).

Ilaria Sicari
[30 giugno 2021]

Bibliografia

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  • Zajicek B., Soviet Madness: Nervousness, Mild Schizophrenia and the Professional Jurisdiction of Psychiatry in the USSR, 1918-1936, “Ab Imperio”, 4 (2014): 167-194.

L’autrice della presente scheda, Ilaria Sicari, ha tenuto un corso dedicato a questa tematica presso l’Università degli Studi di Firenze, durante l’a.a. 2019-2020, e ha curato le seguenti schede redatte dagli studenti:

Cita come:
Ilaria Sicari, La nascita del movimento per la difesa dei diritti umani e l’abuso della psichiatria in URSS, in Voci libere in URSS. Letteratura, pensiero, arti indipendenti in Unione Sovietica e gli echi in Occidente (1953-1991), a cura di C. Pieralli, M. Sabbatini, Firenze University Press, Firenze 2021-, <vocilibereurss.fupress.net>.
eISBN 978-88-5518-463-2
© 2021 Author(s)
Content license: CC BY 4.0